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@u_repubblica on Instagram have full name is U la Repubblica. Here you can discover all stories, photos, videos posted by u_repubblica on Instagram. Read More...

@jemperucchini dipinge storie. Racconti contemporanei con un linguaggio classico-figurativo e influenze dell’arte italiana, dal Rinascimento alla Metafisica. Un talento speciale per la pittura, il suo, fatto di minuscoli pattern distillati nelle tonalità dei rosa, degli ocra e degli oro. La sua ultima personale – “Strange Fruit”, alla Galleria Corvi-Mora di Londra – prende a prestito il titolo da una canzone di Billie Holiday del 1939 e si riferisce alla violenza razzista americana.
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Etiope di nascita, italiano d’adozione, Jem si racconta a U nel suo studio di Milano dove sta lavorando alla prossima personale (primavera 2025) alla @fondazionesandretto. Devoto della pittura, prepara rigorosamente le sue tele (di lino), osserva luci e sfumature, mentre dipinge a olio e ascolta musica. «Ascolto tutti i generi di jazz: da quello americano all’etiope, in cui nell’improvvisazione risuonano sonorità ritmiche africane molto interessanti. E poi Bach e musica classica».
L’intervista di @cloepiccoli su U.
@jemperucchini dipinge storie. Racconti contemporanei con un linguaggio classico-figurativo e influenze dell’arte italiana, dal Rinascimento alla Metafisica. Un talento speciale per la pittura, il suo, fatto di minuscoli pattern distillati nelle tonalità dei rosa, degli ocra e degli oro. La sua ultima personale – “Strange Fruit”, alla Galleria Corvi-Mora di Londra – prende a prestito il titolo da una canzone di Billie Holiday del 1939 e si riferisce alla violenza razzista americana. ‌ Etiope di nascita, italiano d’adozione, Jem si racconta a U nel suo studio di Milano dove sta lavorando alla prossima personale (primavera 2025) alla @fondazionesandretto. Devoto della pittura, prepara rigorosamente le sue tele (di lino), osserva luci e sfumature, mentre dipinge a olio e ascolta musica. «Ascolto tutti i generi di jazz: da quello americano all’etiope, in cui nell’improvvisazione risuonano sonorità ritmiche africane molto interessanti. E poi Bach e musica classica». L’intervista di @cloepiccoli su U.
33 1 a day ago
“Ognuno fa schifo come può”, canta @auroroborealo. Eppure lui
riesce a fare schifo meglio di chiunque altro. Classe 1984, cantautore di musica demenziale, collezionista e divulgatore di libri (@libri.brutti) e dischi brutti (@orrorea33giri). Con i suoi 59 chili distribuiti per un metro e 89 di altezza, è anche spogliarellista e cubista che più cringe non si potrebbe, nel gruppo dei @bellieimpossibiliofficial.
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Borealo è un paladino del trash, discepolo di Tommaso Labranca, e soprattutto profeta delle nostre future nostalgie. Ciò che è brutto per gli altri, per lui è semplicemente bellissimo. E la cosa sorprendente è che il tempo gli dà sempre ragione. «Sono nato a metà anni Ottanta, nell’estetica del brutto», racconta. «Ogni prodotto culturale veniva utilizzato, consumato e dopo qualche anno considerato vecchio, fuori moda, brutto. Ma nel giro di 15-20 anni questi successi venivano recuperati e rivalutati. Era il trash teorizzato da Labranca, un misto di nostalgia, gusto naïf e presa di coscienza che certi prodotti culturali “bassi” dicono di un’epoca molto più dei loro corrispettivi “alti”».
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“Sia i piatti che i cessi li produce Richard Ginori” è un verso-manifesto. «Dal punto di vista culturale le due cose spesso coincidono. Per questo bisognerebbe avere un rapporto sano tra ciò che produciamo, consumiamo e scartiamo, anche nella cultura. Alla fine è il “produci consuma crepa” dei CCCP, solo meno disfattista. In altre parole, non dovremmo vergognarci della cultura che viene considerata brutta, perché a un certo punto ritornerà. E noi saremo lì a rimpiangere quanto abbiamo fatto schifo».
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L’intervista di Nicola Baroni (@nicobaro.nb) su U.
“Ognuno fa schifo come può”, canta @auroroborealo. Eppure lui riesce a fare schifo meglio di chiunque altro. Classe 1984, cantautore di musica demenziale, collezionista e divulgatore di libri (@libri.brutti) e dischi brutti (@orrorea33giri). Con i suoi 59 chili distribuiti per un metro e 89 di altezza, è anche spogliarellista e cubista che più cringe non si potrebbe, nel gruppo dei @bellieimpossibiliofficial. ‌ Borealo è un paladino del trash, discepolo di Tommaso Labranca, e soprattutto profeta delle nostre future nostalgie. Ciò che è brutto per gli altri, per lui è semplicemente bellissimo. E la cosa sorprendente è che il tempo gli dà sempre ragione. «Sono nato a metà anni Ottanta, nell’estetica del brutto», racconta. «Ogni prodotto culturale veniva utilizzato, consumato e dopo qualche anno considerato vecchio, fuori moda, brutto. Ma nel giro di 15-20 anni questi successi venivano recuperati e rivalutati. Era il trash teorizzato da Labranca, un misto di nostalgia, gusto naïf e presa di coscienza che certi prodotti culturali “bassi” dicono di un’epoca molto più dei loro corrispettivi “alti”». ‌ “Sia i piatti che i cessi li produce Richard Ginori” è un verso-manifesto. «Dal punto di vista culturale le due cose spesso coincidono. Per questo bisognerebbe avere un rapporto sano tra ciò che produciamo, consumiamo e scartiamo, anche nella cultura. Alla fine è il “produci consuma crepa” dei CCCP, solo meno disfattista. In altre parole, non dovremmo vergognarci della cultura che viene considerata brutta, perché a un certo punto ritornerà. E noi saremo lì a rimpiangere quanto abbiamo fatto schifo». ‌ L’intervista di Nicola Baroni (@nicobaro.nb) su U.
42 1 2 days ago
CLAUDIO SABELI FIORETTI: Come vuoi morire?
ANTONIO RICCI: «Evaporato, nella sauna, ma mi hanno spiegato che scientificamente è impossibile».
CSF: Perché Berlusconi non ti ha mai cacciato?
AR: «Abbiamo avuto scontri epici, ma ha sempre avuto rispetto per me e per l’indotto. Una volta, al culmine di una roba che lo aveva fatto arrabbiare molto, al telefono improvvisamente disse: “Ma tu queste battute le faresti anche su tua mamma?”. Io gli dissi: “Ma certamente”. E lui: “Ok, va bene, ho capito, ciao”».
CSF: L’errore di Berlusconi?
AR: «Non essere o fingersi di sinistra. Se avesse regalato una rete ai “comunisti” avrebbe vissuto una vita tranquilla, niente processi, niente leggi ad personam».
CSF: Parliamo della tua arma preferita, i fuorionda. Perché le persone non stanno più attente sapendo che ci sei tu che le ascolti?
AR: «Chi ha l’ego ipertrofico difficilmente capisce che una volta entrati nello studio televisivo sono alla mercé di chiunque».
CSF: Andrea Giambruno è tornato con Giorgia Meloni?
AR: «Nel mio immaginario non si sono mai lasciati. Non ho prove, ma mi sembra improbabile che una donna che sta 10 anni con un uomo non sappia cosa pensa e cosa fa. Lo scopre solo quando Striscia manda il fuorionda?»
CSF: Perché Mediaset non ha bloccato il pezzo su Giambruno?
AR: «Non poteva perché non sapeva. Quando c’è qualcosa di delicato io faccio un copione falso. Comunque…».
CSF: Comunque?
AR: «È molto più grave aver messo in quel posto Giambruno, che non mandare un fuori onda in cui lui fa lo scemo con la conduttrice e si pastrugna l’apparato uro-genitale».
CSF: Ormai è passato tanto tempo e ce lo puoi dire. Come facevi ad indovinare i vincitori di Sanremo?
AR: «Se vuoi, puoi. Secondo te non credo in Dio e mi metto a credere a Sanremo?».
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L’intervista di Claudio Sabelli Fioretti @claudio_sabelli_fioretti su U.
CLAUDIO SABELI FIORETTI: Come vuoi morire? ANTONIO RICCI: «Evaporato, nella sauna, ma mi hanno spiegato che scientificamente è impossibile». CSF: Perché Berlusconi non ti ha mai cacciato? AR: «Abbiamo avuto scontri epici, ma ha sempre avuto rispetto per me e per l’indotto. Una volta, al culmine di una roba che lo aveva fatto arrabbiare molto, al telefono improvvisamente disse: “Ma tu queste battute le faresti anche su tua mamma?”. Io gli dissi: “Ma certamente”. E lui: “Ok, va bene, ho capito, ciao”». CSF: L’errore di Berlusconi? AR: «Non essere o fingersi di sinistra. Se avesse regalato una rete ai “comunisti” avrebbe vissuto una vita tranquilla, niente processi, niente leggi ad personam». CSF: Parliamo della tua arma preferita, i fuorionda. Perché le persone non stanno più attente sapendo che ci sei tu che le ascolti? AR: «Chi ha l’ego ipertrofico difficilmente capisce che una volta entrati nello studio televisivo sono alla mercé di chiunque». CSF: Andrea Giambruno è tornato con Giorgia Meloni? AR: «Nel mio immaginario non si sono mai lasciati. Non ho prove, ma mi sembra improbabile che una donna che sta 10 anni con un uomo non sappia cosa pensa e cosa fa. Lo scopre solo quando Striscia manda il fuorionda?» CSF: Perché Mediaset non ha bloccato il pezzo su Giambruno? AR: «Non poteva perché non sapeva. Quando c’è qualcosa di delicato io faccio un copione falso. Comunque…». CSF: Comunque? AR: «È molto più grave aver messo in quel posto Giambruno, che non mandare un fuori onda in cui lui fa lo scemo con la conduttrice e si pastrugna l’apparato uro-genitale». CSF: Ormai è passato tanto tempo e ce lo puoi dire. Come facevi ad indovinare i vincitori di Sanremo? AR: «Se vuoi, puoi. Secondo te non credo in Dio e mi metto a credere a Sanremo?». ‌ L’intervista di Claudio Sabelli Fioretti @claudio_sabelli_fioretti su U.
46 0 3 days ago
CLAUDIO SABELLI FIORETTI: Lucio Presta diceva…
ANTONIO RICCI: «Che io non sono la medicina, sono la malattia. Io non avrei mai detto una cosa del genere. È una citazione da Rambo».
CSF: Era per Bonolis?
AR: «Bonolis aveva tirato fuori la storia della maga che parlava con i morti. Ci sentimmo in dovere di sputtanarlo».
CSF: Bonolis ti accusò di speculare col suo dolore.
AR: «Bonolis, non piange: gli sudano gli occhi! L’Italia è un paese mafioso e cattolico, dove si adora l’uomo in croce, per cui chi si autocrocifigge ottiene uno scudo di simpatia. È la nazione della simulazione del fallo…».
CSF: Temo quello che stai per dire.
AR: «Che cosa hai capito? Sto parlando del calcio, di quelli che si buttano a terra urlando senza che nessuno li abbia toccati. Quanta gente finge di essere vittima di una grossa ingiustizia? Lo fanno per obnubilare le menti e titillare le pance».
CSF: Bonolis però disse che sua figlia stava male.
AR: «Quando tiri fuori i figli è il top. Ambra, quando le abbiamo dato il Tapiro, ha optato per il format vittima e ha tirato fuori la figlia. E adesso anche Sonia Bruganelli a Ballando con le stelle per rispondere alle critiche su come balla male si è appellata alla sofferenza della figlia».
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L’intervista di Claudio Sabelli Fioretti @claudio_sabelli_fioretti su U.
CLAUDIO SABELLI FIORETTI: Lucio Presta diceva… ANTONIO RICCI: «Che io non sono la medicina, sono la malattia. Io non avrei mai detto una cosa del genere. È una citazione da Rambo». CSF: Era per Bonolis? AR: «Bonolis aveva tirato fuori la storia della maga che parlava con i morti. Ci sentimmo in dovere di sputtanarlo». CSF: Bonolis ti accusò di speculare col suo dolore. AR: «Bonolis, non piange: gli sudano gli occhi! L’Italia è un paese mafioso e cattolico, dove si adora l’uomo in croce, per cui chi si autocrocifigge ottiene uno scudo di simpatia. È la nazione della simulazione del fallo…». CSF: Temo quello che stai per dire. AR: «Che cosa hai capito? Sto parlando del calcio, di quelli che si buttano a terra urlando senza che nessuno li abbia toccati. Quanta gente finge di essere vittima di una grossa ingiustizia? Lo fanno per obnubilare le menti e titillare le pance». CSF: Bonolis però disse che sua figlia stava male. AR: «Quando tiri fuori i figli è il top. Ambra, quando le abbiamo dato il Tapiro, ha optato per il format vittima e ha tirato fuori la figlia. E adesso anche Sonia Bruganelli a Ballando con le stelle per rispondere alle critiche su come balla male si è appellata alla sofferenza della figlia». ‌ L’intervista di Claudio Sabelli Fioretti @claudio_sabelli_fioretti su U.
11 0 3 days ago
Ci sono un gigantesco Gabibbo, un gigantesco Tapiro, 1.750 piccolissimi monitor in cui vanno le puntate della trasmissione, centinaia di fotografie di eventi storici, primo fra tutti l’epica chiacchierata tra D’Alema e il Gabibbo. Paradossalmente non c’è lui, Antonio Ricci, che tutto ciò ha messo in moto un lontano 7 novembre del 1988. Nemmeno una foto nel museo di Striscia allestito da sua figlia Vittoria.
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Lui se ne sta in carne e ossa al piano di sopra, in un piccolo ufficio pieno di ogni cosa, compresa una sedia che appartenne a Fabio Fazio e che Ricci comprò per 30 euro. «L’ho comprata a un’asta degli oggetti provenienti da una villa di Fabio. Cambiava casa. Tutti noi avremmo regalato gli oggetti a una parrocchia. Lui ha fatto un’asta. Essendo ligure e i liguri sono notoriamente… accorti», racconta Ricci a Claudio Sabelli Fioretti su @u_repubblica 
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Poi, ricorda l’aneddoto dell’emerocallo: «Una poesia che ho scritto per fare un trappolone a Massimo Giletti. Un falso montaliano. Giletti mi aveva chiesto di recitare la poesia del cuore, a Domenica In. Io gli dissi che avevo trovato un inedito di Montale e gli mandai il video con la mia recitazione. “Come l’emerocallo che scolora, / nella bruma diffusa della sera / sempre svanisce nel ricordo / questa allegrezza inquieta./ Strombola il falco, l’ulivo s’inciela...”. Accenni di Gozzano, di Sbarbaro, perfino di Pascoli. Andò in onda senza alcun commento. Nessuno si accorse di nulla».
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Infine, confessa: «Purtroppo temo di essere buono. Dentro di me sono santo. Ma, per fortuna, non mi crede nessuno. Mi attribuiscono tutte le cose più malvage. Paolo Villaggio raccontava che avevo fatto mangiare un topo morto a Fabrizio de André».
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L’intervista di Claudio Sabelli Fioretti @claudio_sabelli_fioretti su @u_repubblica
Ci sono un gigantesco Gabibbo, un gigantesco Tapiro, 1.750 piccolissimi monitor in cui vanno le puntate della trasmissione, centinaia di fotografie di eventi storici, primo fra tutti l’epica chiacchierata tra D’Alema e il Gabibbo. Paradossalmente non c’è lui, Antonio Ricci, che tutto ciò ha messo in moto un lontano 7 novembre del 1988. Nemmeno una foto nel museo di Striscia allestito da sua figlia Vittoria. ‌ Lui se ne sta in carne e ossa al piano di sopra, in un piccolo ufficio pieno di ogni cosa, compresa una sedia che appartenne a Fabio Fazio e che Ricci comprò per 30 euro. «L’ho comprata a un’asta degli oggetti provenienti da una villa di Fabio. Cambiava casa. Tutti noi avremmo regalato gli oggetti a una parrocchia. Lui ha fatto un’asta. Essendo ligure e i liguri sono notoriamente… accorti», racconta Ricci a Claudio Sabelli Fioretti su @u_repubblica ‌ Poi, ricorda l’aneddoto dell’emerocallo: «Una poesia che ho scritto per fare un trappolone a Massimo Giletti. Un falso montaliano. Giletti mi aveva chiesto di recitare la poesia del cuore, a Domenica In. Io gli dissi che avevo trovato un inedito di Montale e gli mandai il video con la mia recitazione. “Come l’emerocallo che scolora, / nella bruma diffusa della sera / sempre svanisce nel ricordo / questa allegrezza inquieta./ Strombola il falco, l’ulivo s’inciela...”. Accenni di Gozzano, di Sbarbaro, perfino di Pascoli. Andò in onda senza alcun commento. Nessuno si accorse di nulla». ‌ Infine, confessa: «Purtroppo temo di essere buono. Dentro di me sono santo. Ma, per fortuna, non mi crede nessuno. Mi attribuiscono tutte le cose più malvage. Paolo Villaggio raccontava che avevo fatto mangiare un topo morto a Fabrizio de André». ‌ L’intervista di Claudio Sabelli Fioretti @claudio_sabelli_fioretti su @u_repubblica
2.3K 23 3 days ago
Appena saputo che l’intervista è per U la Repubblica, @lucasnbravo chiede di farla in italiano. «Le dispiace? Ho bisogno di esercitarmi». L’attore francese, diventato famoso per “Emily in Paris” (alla quarta stagione su Netflix, dove interpreta lo chef Gabriel: «Non mi assomiglia più molto, però», ammette), a 8 anni ha vissuto in Italia al seguito del padre Daniel, calciatore della nazionale francese con breve parentesi nel Parma. Ora è su Prime Video, nell’action “Libre” diretto da Mélanie Laurent, dove interpreta il rapinatore Bruno Sulak: ladro gentiluomo realmente vissuto negli anni 80.
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I tempi di Parma sono lontani, come mai parla ancora così bene l’italiano? «L’ho ripreso girando a Venezia “The Honeymoon. Come ti rovino il viaggio di nozze”. Sì, non credo l’abbia visto (dice ridendo, ndr). La troupe era tutta italiana». Anche le origini del suo cognome? «No, è spagnolo, di Barcellona. Mio nonno durante la dittatura di Franco scappò in bici lungo la costa per arrivare in Francia e stabilirsi a Nizza, dove poi è nato mio padre. Da tanto vivo a Parigi. Torno a Nizza quando mi manca il calore del sud».
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L’intervista di Antonella Matranga su U.
Appena saputo che l’intervista è per U la Repubblica, @lucasnbravo chiede di farla in italiano. «Le dispiace? Ho bisogno di esercitarmi». L’attore francese, diventato famoso per “Emily in Paris” (alla quarta stagione su Netflix, dove interpreta lo chef Gabriel: «Non mi assomiglia più molto, però», ammette), a 8 anni ha vissuto in Italia al seguito del padre Daniel, calciatore della nazionale francese con breve parentesi nel Parma. Ora è su Prime Video, nell’action “Libre” diretto da Mélanie Laurent, dove interpreta il rapinatore Bruno Sulak: ladro gentiluomo realmente vissuto negli anni 80. ‌ I tempi di Parma sono lontani, come mai parla ancora così bene l’italiano? «L’ho ripreso girando a Venezia “The Honeymoon. Come ti rovino il viaggio di nozze”. Sì, non credo l’abbia visto (dice ridendo, ndr). La troupe era tutta italiana». Anche le origini del suo cognome? «No, è spagnolo, di Barcellona. Mio nonno durante la dittatura di Franco scappò in bici lungo la costa per arrivare in Francia e stabilirsi a Nizza, dove poi è nato mio padre. Da tanto vivo a Parigi. Torno a Nizza quando mi manca il calore del sud». ‌ L’intervista di Antonella Matranga su U.
137 0 6 days ago
In “We Are At War” Phillip Toledano (@mrtoledano) ha utilizzato l’Ai per ricreare le fotografie scattate da Robert Capa il D-Day e andate perdute per colpa di un assistente maldestro che, nella camera oscura della sede londinese di Life, bruciò quasi tutti i rullini.
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«Quando poche settimane fa ho presentato il lavoro a Deauville, quasi tutti si sono emozionati, si sono commossi... E hanno creduto fossero immagini reali. Poi, dopo la presentazione, quando hanno capito che erano false, che non avevano nulla di reale, hanno provato spaesamento, confusione, come si sentissero vittime di un inganno», raconta Toledano.
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«La nostra esperienza percettiva è molto cambiata rispetto a decenni fa: oggi guardiamo immagini sul telefonino, ma solo quelle che riescono a emozionarci stimolando curiosità o sentimenti ottengono la nostra attenzione. Una fotografia esercita su di noi un potere emotivo, molto più che narrativo. Ma soltanto soffermandoci sulla narrazione di una storia e sul suo significato saremo in grado di distinguere cosa è reale da quello che non lo è».
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L’intervista di Carlotta Magnanini (@carlottamag) su U.
In “We Are At War” Phillip Toledano (@mrtoledano) ha utilizzato l’Ai per ricreare le fotografie scattate da Robert Capa il D-Day e andate perdute per colpa di un assistente maldestro che, nella camera oscura della sede londinese di Life, bruciò quasi tutti i rullini. ‌ «Quando poche settimane fa ho presentato il lavoro a Deauville, quasi tutti si sono emozionati, si sono commossi... E hanno creduto fossero immagini reali. Poi, dopo la presentazione, quando hanno capito che erano false, che non avevano nulla di reale, hanno provato spaesamento, confusione, come si sentissero vittime di un inganno», raconta Toledano. ‌ «La nostra esperienza percettiva è molto cambiata rispetto a decenni fa: oggi guardiamo immagini sul telefonino, ma solo quelle che riescono a emozionarci stimolando curiosità o sentimenti ottengono la nostra attenzione. Una fotografia esercita su di noi un potere emotivo, molto più che narrativo. Ma soltanto soffermandoci sulla narrazione di una storia e sul suo significato saremo in grado di distinguere cosa è reale da quello che non lo è». ‌ L’intervista di Carlotta Magnanini (@carlottamag) su U.
31 0 6 days ago
“Se una foto non è abbastanza buona, significa che non sei abbastanza vicino”, diceva Robert Capa. Vi sembrano ottime le foto di questo post, vero, scattate a distanza ravvicinata? Sbagliato. Le drammatiche ed emozionanti scene belliche del D-Day che state osservando sono false, create con l’Ai.
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Per realizzare “We Are At War” (ora pubblicato da @lartiere) Phillip Toledano (@mrtoledano) è tornato “artificialmente” a Omaha Beach e continuato una storia: quella epocale documentata dall’unico reporter al mondo, il 6 giugno 1944, quando l’ungherese sbarcò in Normandia, armato delle sue Contax II, accanto alle truppe americane e sotto il fuoco tedesco. Scattò 106 foto, «ne restarono solo 11, tra cui la più celebre del soldato Usa che avanza nell’acqua fino alla vita», racconta Toledano.
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“The Magnificent Eleven”, che uscirono su Life, sopravvissero all’errore di un assistente maldestro che, nella camera oscura della sede londinese del magazine, bruciò quasi tutti i rullini. Una svista del passato che si è rivelata «una grande opportunità per due motivi: primo, perché ha creato un vuoto che io potevo riempire. Secondo, e più importante, perché quel vuoto atteneva al D-Day e a Robert Capa, tanto importanti per il XX secolo da offrire un’occasione perfetta per dimostrare il potere manipolatorio delle immagini».
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L’intervista di Carlotta Magnanini (@carlottamag) su @u_repubblica
“Se una foto non è abbastanza buona, significa che non sei abbastanza vicino”, diceva Robert Capa. Vi sembrano ottime le foto di questo post, vero, scattate a distanza ravvicinata? Sbagliato. Le drammatiche ed emozionanti scene belliche del D-Day che state osservando sono false, create con l’Ai. ‌ Per realizzare “We Are At War” (ora pubblicato da @lartiere) Phillip Toledano (@mrtoledano) è tornato “artificialmente” a Omaha Beach e continuato una storia: quella epocale documentata dall’unico reporter al mondo, il 6 giugno 1944, quando l’ungherese sbarcò in Normandia, armato delle sue Contax II, accanto alle truppe americane e sotto il fuoco tedesco. Scattò 106 foto, «ne restarono solo 11, tra cui la più celebre del soldato Usa che avanza nell’acqua fino alla vita», racconta Toledano. ‌ “The Magnificent Eleven”, che uscirono su Life, sopravvissero all’errore di un assistente maldestro che, nella camera oscura della sede londinese del magazine, bruciò quasi tutti i rullini. Una svista del passato che si è rivelata «una grande opportunità per due motivi: primo, perché ha creato un vuoto che io potevo riempire. Secondo, e più importante, perché quel vuoto atteneva al D-Day e a Robert Capa, tanto importanti per il XX secolo da offrire un’occasione perfetta per dimostrare il potere manipolatorio delle immagini». ‌ L’intervista di Carlotta Magnanini (@carlottamag) su @u_repubblica
108 10 8 days ago
Alzi la mano chi vorrebbe avere per padre Elon Musk. Sì, ho capito, ma il punto non è ereditare la Tesla, intesa come azienda che la produce. Alzi la mano chi vorrebbe condividere il padre con 10 fratelli, prodotti con tre madri diverse e differenti espedienti, senza che la catena di montaggio sia peraltro destinata a interrompersi perché papà pensa che il problema principale del mondo in cui viviamo sia la scarsità di nascite. Dimenticavo una cosa: se tuo padre è Elon Musk, spesso ti porta a cena Donald Trump. Contento tu.
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Esiste una categoria di maschi che considera la riproduzione un dovere e la misura con il metro della quantità. Un po’ come quando si valutava una persona per quanto mangiava. In questa visione donne, mogli, sono intercambiabili, i figli hanno nomi strani per poterli ricordare. Musk ne ha uno chiamato X, come ha ribattezzato poi Twitter. Da grande sarà Mister X, nessuno. Non si azzardi. I figli dei patriarchi devono diventare qualcuno. Ne fanno tanti perché almeno uno di loro diventi importante e famoso. Il padre di Elon ne ebbe 7. Lui 11, prova a moltiplicare per 15 ciascuno. Non vogliono ripopolare la Terra, vogliono conquistarla. Producono cloni, non bambini.
‌
È una mia idea personale che la democrazia stia vivendo i suoi ultimi giorni (anche se spero di poter dire, almeno, decenni). Questo si deve a due fattori, il primo: la stanchezza generale per la complessità, che produce soluzioni semplicistiche e spicciative del tipo diamo tutto in mano a uno e rilassiamoci. Il secondo: la demografia pende dalla parte di Paesi governati da autocrazie. Cresce il numero di persone abituate all’assolutismo, si spopola la Scandinavia.
‌
I figli e nipoti di Musk saranno stati educati a una caserma familiare, con il ritratto del padre fondatore appeso in ogni stanza, donne adoranti e visite infrequenti. Papà, perché mi hai messo al mondo? Per fare numero. Per fermare l’avanzata islamica. Per diffondere i miei geni su questo suolo texano arso dal sole. Musk ha perso un figlio nato dalla prima moglie, ma il suo problema principale non è sembrato piangerlo, quanto sostituirlo.
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La rubrica di Gabriele Romagnoli @gabriel10960 su U.
Alzi la mano chi vorrebbe avere per padre Elon Musk. Sì, ho capito, ma il punto non è ereditare la Tesla, intesa come azienda che la produce. Alzi la mano chi vorrebbe condividere il padre con 10 fratelli, prodotti con tre madri diverse e differenti espedienti, senza che la catena di montaggio sia peraltro destinata a interrompersi perché papà pensa che il problema principale del mondo in cui viviamo sia la scarsità di nascite. Dimenticavo una cosa: se tuo padre è Elon Musk, spesso ti porta a cena Donald Trump. Contento tu. ‌ Esiste una categoria di maschi che considera la riproduzione un dovere e la misura con il metro della quantità. Un po’ come quando si valutava una persona per quanto mangiava. In questa visione donne, mogli, sono intercambiabili, i figli hanno nomi strani per poterli ricordare. Musk ne ha uno chiamato X, come ha ribattezzato poi Twitter. Da grande sarà Mister X, nessuno. Non si azzardi. I figli dei patriarchi devono diventare qualcuno. Ne fanno tanti perché almeno uno di loro diventi importante e famoso. Il padre di Elon ne ebbe 7. Lui 11, prova a moltiplicare per 15 ciascuno. Non vogliono ripopolare la Terra, vogliono conquistarla. Producono cloni, non bambini. ‌ È una mia idea personale che la democrazia stia vivendo i suoi ultimi giorni (anche se spero di poter dire, almeno, decenni). Questo si deve a due fattori, il primo: la stanchezza generale per la complessità, che produce soluzioni semplicistiche e spicciative del tipo diamo tutto in mano a uno e rilassiamoci. Il secondo: la demografia pende dalla parte di Paesi governati da autocrazie. Cresce il numero di persone abituate all’assolutismo, si spopola la Scandinavia. ‌ I figli e nipoti di Musk saranno stati educati a una caserma familiare, con il ritratto del padre fondatore appeso in ogni stanza, donne adoranti e visite infrequenti. Papà, perché mi hai messo al mondo? Per fare numero. Per fermare l’avanzata islamica. Per diffondere i miei geni su questo suolo texano arso dal sole. Musk ha perso un figlio nato dalla prima moglie, ma il suo problema principale non è sembrato piangerlo, quanto sostituirlo. ‌ La rubrica di Gabriele Romagnoli @gabriel10960 su U.
15 0 9 days ago
Il film “Nasty: More Than Just Tennis” si sofferma molto sul colore, nel suo caso assai superiore anche alla media di quegli anni, i più coloriti nella storia del tennis. Se quelle dei colleghi erano intemperanze più o meno estrose, nel caso di Ilie Năstasegli spettatori potevano avere l’impressione di trovarsi in un teatro anatomico, dove qualcuno stesse aprendo a loro esclusivo beneficio la mente di un tennista. Una scena un po’ forte, anche se retta da una prova d’attore quasi sempre esilarante.
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Nel film ce ne sono parecchie, compresa la più celebre, andata in scena al Masters di Stoccolma del 1975: costretto a ripetere una prima perché il suo avversario, Arthur Ashe, aveva sostenuto di non essere pronto, Nasty aveva tirato tutte le altre ostentando la pallina e urlando: «Are you ready, Mister Ashe?». La gag era finita con una squalifica di entrambi, ma sono – o almeno erano – i rischi del mestiere. In realtà quello di Stoccolma è solo un episodio di una serie molto più lunga, al cui interno il duo Ashe/Năstase finì per rivelarsi la migliore coppia comica del circuito.
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Forse gli spettatori di oggi non apprezzerebbero gli infiniti siparietti tra l’impeccabile paladino dei diritti civili e quello che allora veniva spesso chiamato, dagli spalti, «bastardo comunista». Non a caso nel film si accenna al più innocuo, e cioè al fatto che Nasty non salutasse mai quello che chiamava sempre e solo «Mr. Negroni» senza passargli due o tre volte la mano sui capelli afro. Mentre si sorvola sui fatti di Louisville, quando Nasty, dovendo giocare un doppio con Ashe, si presentò in campo con viso e collo coperti di lucido da scarpe. Per la cronaca Mr. Negroni non riuscì quasi a giocare, dal ridere - ma oggi, probabilmente, le reazioni sarebbero diverse. Come dice Năstase con un filo di malinconia, «erano altri tempi, poi hanno messo le regole».
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L’intervista di Matteo Codignola su U.
📷 Il tennista, durante un match a Wimbledon nel 1977 e, sempre nello stesso anno, mentre viene premiato da Jackie Kennedy Onassis al torneo di Forest Hills.
Il film “Nasty: More Than Just Tennis” si sofferma molto sul colore, nel suo caso assai superiore anche alla media di quegli anni, i più coloriti nella storia del tennis. Se quelle dei colleghi erano intemperanze più o meno estrose, nel caso di Ilie Năstasegli spettatori potevano avere l’impressione di trovarsi in un teatro anatomico, dove qualcuno stesse aprendo a loro esclusivo beneficio la mente di un tennista. Una scena un po’ forte, anche se retta da una prova d’attore quasi sempre esilarante. ‌ Nel film ce ne sono parecchie, compresa la più celebre, andata in scena al Masters di Stoccolma del 1975: costretto a ripetere una prima perché il suo avversario, Arthur Ashe, aveva sostenuto di non essere pronto, Nasty aveva tirato tutte le altre ostentando la pallina e urlando: «Are you ready, Mister Ashe?». La gag era finita con una squalifica di entrambi, ma sono – o almeno erano – i rischi del mestiere. In realtà quello di Stoccolma è solo un episodio di una serie molto più lunga, al cui interno il duo Ashe/Năstase finì per rivelarsi la migliore coppia comica del circuito. ‌ Forse gli spettatori di oggi non apprezzerebbero gli infiniti siparietti tra l’impeccabile paladino dei diritti civili e quello che allora veniva spesso chiamato, dagli spalti, «bastardo comunista». Non a caso nel film si accenna al più innocuo, e cioè al fatto che Nasty non salutasse mai quello che chiamava sempre e solo «Mr. Negroni» senza passargli due o tre volte la mano sui capelli afro. Mentre si sorvola sui fatti di Louisville, quando Nasty, dovendo giocare un doppio con Ashe, si presentò in campo con viso e collo coperti di lucido da scarpe. Per la cronaca Mr. Negroni non riuscì quasi a giocare, dal ridere - ma oggi, probabilmente, le reazioni sarebbero diverse. Come dice Năstase con un filo di malinconia, «erano altri tempi, poi hanno messo le regole». ‌ L’intervista di Matteo Codignola su U. 📷 Il tennista, durante un match a Wimbledon nel 1977 e, sempre nello stesso anno, mentre viene premiato da Jackie Kennedy Onassis al torneo di Forest Hills.
25 0 10 days ago
In quale lingua preferisci che parliamo? «In rumeno». Pausa. Sguardo imperscrutabile, anche perché nascosto da grandi occhiali scuri. Poi: «Scusa, se mi chiedi ti dico, preferisco rumeno. È verità». La verità è un concetto cui Ilie Năstase tiene moltissimo, e infatti gli chiedo subito quanta ce ne sia in “Nasty: More Than Just Tennis”, il film che l’interessato ha seguito, sembrerebbe, con parecchia attenzione. «È tutto vero lì dentro, sai, le partite, i casini, tutto. Ci siamo fatti dare i filmati da Wimbledon, da Forest Hills e dagli altri, così non possono dire che ci siamo inventati niente. Ma stavolta non possono darmi multe».
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Multe e squalifiche sono ancora l’ossessione di Nasty. Non è un riflesso della paranoia di chi è cresciuto oltre Cortina, visto che le sanzioni disciplinari – l’ultima risale al 2017, quando durante la prima gravidanza di Serena Williams si lasciò scappare una battutaccia sul probabile colore del nascituro – hanno scandito il suo rapporto con il tennis. Ma mentre nelle interviste dei tempi d’oro mostrava di rendersi perfettamente conto di quello che faceva («Il mio gioco è un po’ attaccare le regole e un po’ difendersi dalle regole») oggi ci tiene soprattutto a ricordare di essere stato un tennista, sotto sotto, come tutti gli altri. E, soprattutto, un fuoriclasse. Per quanto strana possa sembrare, la prima affermazione sta abbastanza in piedi. Quanto alla seconda, a corroborarla ci sono gli archivi e YouTube, anche se la paura di Ilie, evidentemente, è che non bastino.
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L’intervista di Matteo Codignola su U.
📷 1. Ilie Năstase con il suo allenatore Ion Ţiriac a Monte Carlo nel 1971; 2. l’arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow, nel 1973, insieme all’ex moglie Dominique Grazia.
In quale lingua preferisci che parliamo? «In rumeno». Pausa. Sguardo imperscrutabile, anche perché nascosto da grandi occhiali scuri. Poi: «Scusa, se mi chiedi ti dico, preferisco rumeno. È verità». La verità è un concetto cui Ilie Năstase tiene moltissimo, e infatti gli chiedo subito quanta ce ne sia in “Nasty: More Than Just Tennis”, il film che l’interessato ha seguito, sembrerebbe, con parecchia attenzione. «È tutto vero lì dentro, sai, le partite, i casini, tutto. Ci siamo fatti dare i filmati da Wimbledon, da Forest Hills e dagli altri, così non possono dire che ci siamo inventati niente. Ma stavolta non possono darmi multe». ‌ Multe e squalifiche sono ancora l’ossessione di Nasty. Non è un riflesso della paranoia di chi è cresciuto oltre Cortina, visto che le sanzioni disciplinari – l’ultima risale al 2017, quando durante la prima gravidanza di Serena Williams si lasciò scappare una battutaccia sul probabile colore del nascituro – hanno scandito il suo rapporto con il tennis. Ma mentre nelle interviste dei tempi d’oro mostrava di rendersi perfettamente conto di quello che faceva («Il mio gioco è un po’ attaccare le regole e un po’ difendersi dalle regole») oggi ci tiene soprattutto a ricordare di essere stato un tennista, sotto sotto, come tutti gli altri. E, soprattutto, un fuoriclasse. Per quanto strana possa sembrare, la prima affermazione sta abbastanza in piedi. Quanto alla seconda, a corroborarla ci sono gli archivi e YouTube, anche se la paura di Ilie, evidentemente, è che non bastino. ‌ L’intervista di Matteo Codignola su U. 📷 1. Ilie Năstase con il suo allenatore Ion Ţiriac a Monte Carlo nel 1971; 2. l’arrivo all’aeroporto londinese di Heathrow, nel 1973, insieme all’ex moglie Dominique Grazia.
23 0 11 days ago
Nonostante all’attivo abbia appena 4 film, Paul Kircher sembra già una scommessa vinta. Classe 2001, per critica e addetti ai lavori è uno dei più promettenti giovani attori europei, con le carte in regola per diventare una star. Qualcuno dice: “è il prossimo Timothée Chalamet”, forse per l’aria sexy e scanzonata, i capelli scomposti e il viso da ragazzino. Intanto ha vinto il premio Marcello Mastroianni come miglior emergente all’ultima Mostra del cinema di Venezia.
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Figlio di attori, in realtà lui aveva pensato di studiare geografia economica. «Da non crederci, vero?», racconta oggi divertito al pensiero. «Anche se a scuola ero bravo a fare il buffone, a mettermi sempre al centro dell’attenzione, dopo il liceo ho deciso che non avrei fatto cinema e mi sono iscritto all’Università. E mi piaceva, anche se i corsi a volte erano noiosi. La cosa dirompente però era avere un programma quotidiano, scadenze precise. Una vita molto diversa da quella della mia famiglia».
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L’intervista di Liana Messina su U.
Nonostante all’attivo abbia appena 4 film, Paul Kircher sembra già una scommessa vinta. Classe 2001, per critica e addetti ai lavori è uno dei più promettenti giovani attori europei, con le carte in regola per diventare una star. Qualcuno dice: “è il prossimo Timothée Chalamet”, forse per l’aria sexy e scanzonata, i capelli scomposti e il viso da ragazzino. Intanto ha vinto il premio Marcello Mastroianni come miglior emergente all’ultima Mostra del cinema di Venezia. ‌ Figlio di attori, in realtà lui aveva pensato di studiare geografia economica. «Da non crederci, vero?», racconta oggi divertito al pensiero. «Anche se a scuola ero bravo a fare il buffone, a mettermi sempre al centro dell’attenzione, dopo il liceo ho deciso che non avrei fatto cinema e mi sono iscritto all’Università. E mi piaceva, anche se i corsi a volte erano noiosi. La cosa dirompente però era avere un programma quotidiano, scadenze precise. Una vita molto diversa da quella della mia famiglia». ‌ L’intervista di Liana Messina su U.
49 0 12 days ago